Con l’avvio di una chiamata Skype, mi trovo virtualmente di fronte ad Akira Yoshida. Un uomo con una storia sorprendente e molto avvincente. Una persona sempre in movimento che, tra mille progetti lavorativi, è riuscito anche a creare una famiglia e a mantenere amicizie e relazioni a poco meno di 10.000 km di distanza. Un anello di congiunzione tra cultura italiana e giapponese e, allo stesso modo, tra i mondi di cibo, moda e calcio. Ho voluto raccontare la sua storia per avere un’idea dell’impatto che il Coronavirus ha avuto sulla sua vita e, più in generale, per conoscerlo meglio come professionista e come persona.
[Intervista del 28/03/20]
Allora, iniziamo da una domanda ovvia ma che è il punto di partenza della storia. Quando sei arrivato in Italia e perché?
Mi sono trasferito in Abruzzo nel 2003, quando avevo diciassette anni, per giocare a calcio a livello semi-professionale. Dopo aver superato un momento iniziale molto difficile, ho deciso di dedicarmi al calcio a 5 che, come straniero, mi dava più possibilità di sfondare. Quindi ho iniziato a giocare a Chieti e da lì in diverse squadre in Umbria, Sicilia e nel Lazio. La svolta è arrivata quando, nel 2010, sono stato convocato dalla squadra nazionale giapponese di calcio a cinque. Da lì, anche la mia carriera in Italia ha fatto un salto in avanti: sono arrivato a giocare in serie A con l’Augusta. Ho smesso di giocare a 26 anni per continuare a dedicarmi ad altre attività e sono rimasto a Roma perché ne ero molto affascinato. Nello specifico, mi sono occupato di moda e di fare l’agente dei calciatori giapponesi in Italia, cosa che già portavo avanti da quando avevo 18 anni.
Ci racconti la tua esperienza come imprenditore nel mondo della moda?
Allora, è iniziata quando avevo 22 anni con l’apertura del Posto Segreto, un negozio di distribuzione di moda italiana a Takarazuka, una città nella zona meridionale dell’isola principale del Giappone. Poi, sei anni fa, si è ampliata grazie alla collaborazione con Bobo Vieri e Maldini per creare un nuovo marchio all’interno dell’azienda Sweet Years, che abbiamo chiamato SY32. È un brand sport-casual che al momento produciamo e distribuiamo in Giappone, ma stiamo lavorando per ampliare la distribuzione in tutta l’Asia.
Nel frattempo hai anche aperto diversi ristoranti. Com’è successo?
Quattro anni fa ho iniziato nel mondo della ristorazione grazie a un amico giapponese che là ha circa 300 ristoranti. Era interessato ad aprire un ristorante in Europa e abbiamo pensato che Roma sarebbe stato il posto ideale, considerando anche che ci vivevo. Iniziando nel settore food i miei soci sono stati fondamentali in quanto fonte delle ricette che usiamo. Io sono bravo ad occuparmi di organizzazione e comunicazione e mi piace mangiare, ma non so cucinare quindi non ce l’avrei potuta fare senza di loro. Abbiamo cominciato aprendo a Ostiense un ramen bar, il Ramen Bar Akira, che nel tempo abbiamo portato anche al Mercato Centrale di Termini e a Torino. Poi circa un’anno e mezzo fa abbiamo aperto accanto al primo ramen bar un ristorante di ravioli, Leo’s Gyoza. L’ultima aggiunta risale a quasi un anno fa ed è Durayaki, una pasticceria giapponese che abbiamo pensato come spazio sociale e culturale per incontrarsi.
Che bella idea! Cosa intendi esattamente per spazio sociale e culturale?
È un ambiente in cui proponiamo libri, riviste e manga in lingua originale, dove si possono acquistare gadget importati direttamente dal Giappone e dove a volte organizziamo anche eventi come presentazioni di libri. Volevamo creare una sorta di “angolo del Giappone”, un posto in cui curiosi o appassionati potessero immergersi nella cultura orientale e magari scambiare quattro chiacchiere con dei giapponesi che ci lavorano o lo visitano. Con la stessa ottica di condivisione della cultura, organizzo diversi eventi a tema food, da solo o in collaborazione, e partecipo con il mio stand a molti altri.
Ce ne racconteresti un paio?
I principali sono ViaJapan e il Festival dell’Oriente. Il primo è un uno street food festival annuale che abbiamo organizzato da una richiesta di collaborazione dell’ambasciata giapponese e dell’Istituto di Cultura Giapponese, quindi è assolutamente autentico. Si tiene ad Ottobre alle Officine Farneto e dura tre giorni, durante i quali i visitatori possono assaggiare piatti della tradizione cucinati di fronte a loro da cuochi che vengono in Italia apposta per l’occasione. Il Festival dell’Oriente, invece, è un evento nazionale a cui partecipiamo quando è a Roma: siamo riusciti a far riservare un corner piuttosto grande dove noi e altri cuciniamo.
Come dicevi prima le tue attività producono prodotti consumati molto frequentemente. Quindi è anche portando in Italia un’esperienza giapponese più quotidiana che vuoi trasmettere agli italiani la cultura giapponese.
Sì, tramite il cibo, così come con il calcio. Mi sono reso conto che non sarebbe bastato parlarne e raccontarla, siccome sarebbe stato molto complesso far capire alcune logiche di fondo. È stato per questo che ho preferito aprire il ristorante, in modo che potesse essere un luogo dove potevo insegnare ai miei clienti che, per esempio, gli spaghetti del ramen vanno risucchiati rumorosamente perché si raffreddino e ne venga esaltato il gusto, oltre che per compiere un gesto di apprezzamento. Per poter trasmettere la cultura giapponese a più persone ho iniziato a partecipare e a organizzare eventi dove, a differenza dei 50 clienti al giorno con cui parlavo al ristorante, potevo comunicare il messaggio a 10.000 persone in due giorni. Un altro strumento che mi può aiutare in questo è internet: infatti stiamo lavorando ora a un sito che elenca tutti i ristoranti giapponesi autentici in Italia. Tutto questo lavoro è un enorme passo avanti da quello che era il mondo romano sei anni fa, quando non si sapevano ancora usare le bacchette, e mi ha fatto capire che è fondamentale che io resti a contatto con le persone per riuscire nel mio scopo.
Però, così come stai trasmettendo la cultura giapponese in Italia, stai anche facendo lo stesso in Giappone. Qual è l’obiettivo finale per cui lo fai?
Il mio obiettivo è di essere un ponte tra due paesi. Le mie attività sono sicuramente piccole realtà ma le vedo in divenire come punti di partenza per ampliare il mio impatto anche oltre la moda, il calcio e il food. E poi essere un onesto portavoce per ambo le parti.
Qual è un piatto che in Giappone piace ma che in Italia non potrebbe mai funzionare?
I fagioli di soia fermentati, si chiamano natto. Sono viscidi e appiccicosi, infatti quando li tiri su si creano dei filamenti tra di loro. Sono un cibo controverso anche in Giappone in realtà: infatti nella zona di Osaka non si consumano molto mentre nella zona di Tokyo si mangiano spesso. A nessuno degli italiani a cui l’ho portato o l’ho fatto assaggiare mentre erano in visita è piaciuto; nemmeno ai miei figli piace, ma effettivamente sono nati in Italia con mamma italiana quindi non ci sono abituati. In Giappone, tradizionalmente, si pensa che il cibo viscido o all’apparenza schifoso dia più energia e infatti, oltre al natto, esistono molti altri piatti del genere.
Quindi, più fa senso e più ha valore nutritivo?
Praticamente sì. Un altro esempio che mi viene in mente è il pesce essiccato, che non ha particolare gusto, ma i genitori raccomandano sempre tanto ai loro figli di mangiarlo. Oppure il tororo (cioè naigamo – un tubero – grattugiato) o le cavallette, che vengono mangiate quando si va in campagna. In Giappone ci sono molte persone che, in nome dell’essere salutari, mangiano prodotti che non hanno gusto o che magari non trovano proprio buoni.
È molto interessante questo aspetto della vostra cultura per cui date priorità al miglioramento personale.
Sì, ed è una mentalità che sicuramente va oltre al cibo. Basti pensare al concetto di Kamikaze, che è una persona che si uccide per il bene del suo paese. In un certo senso sono visioni un po’ masochiste ma sicuramente i giapponesi sanno sacrificarsi per una causa più grande.
Qual è la cosa che ti rende più orgoglioso del tuo ristorante?
Sono contento e fiero che dopo quattro anni dall’apertura, moltissimi dei nostri dipendenti sono rimasti con noi, che si sono trovati bene e si sono affezionati. Ci teniamo molto a creare il gruppo, infatti organizziamo tanti eventi interni, che siano barbeque o momenti di formazione divertenti. E, quando sento di altri ristoratori che si lamentano dei loro dipendenti italiani, io sono fiero del fatto che i miei ragazzi si impegnino tanto e lavorino bene e del fatto che, contrariamente agli stereotipi, a volte sono anche più gentili di quelli giapponesi.
Come mai non hai mai pensato di iniziare un’attività legata al sushi?
Tantissime persone che entravano da Akira, poco dopo l’apertura, cercavano il sushi perché era l’unico piatto della cucina giapponese che conoscevano. In realtà la nostra dieta è tutt’altro: il sushi è un cibo per le occasioni speciali – quindi lo si mangia non più di una volta al mese – mentre il ramen, i dorayaki e i gyoza sono cibi che si mangiano tutti i giorni. Il motivo principale per cui non mi sono inserito in quel campo è che il mio obiettivo lavorativo è proporre prodotti quasi, se non completamente, sconosciuti e non di essere “uno di quelli” che fa sushi.
Ecco, ci racconti meglio come scegli che attività intraprendere?
Come dicevo prima, preferisco creare qualcosa da zero per una nicchia, anche apprezzando il fatto di essere unico e un punto di riferimento in quel campo. Sicuramente è un processo molto bello e stimolante ma è anche molto rischioso perché tutte le decisioni spettano a te, a partire dallo stabilire il prezzo dei prodotti, e perché essendo nuovo non hai sicurezze su come le persone reagiranno. Per diminuire i rischi, cerco sempre soci con cui collaborare per la creazione delle attività. Ciò che ho imparato da questo è che, per avere successo, è fondamentale avere le idee molto chiare su cosa si vuole fare.
Hai mai pensato di aprire un ristorante italiano in Giappone, invertendo ciò che hai fatto fino ad ora?
In Giappone ora esistono tanti ristoranti italiani perché molti giapponesi, circa vent’anni fa, sono venuti in Italia a imparare a cucinare il cibo italiano e, allo stesso tempo, anche tante pizzerie famose in Italia hanno aperto locali in Giappone. Io ho deciso di trasmettere la cultura italiana in Giappone tramite la moda, con la mia azienda SY32 e con Posto Segreto. Per quanto riguarda il cibo, non ci ho ancora pensato, ma forse è perché fino ad ora è mancata l’occasione di farlo, considerando che non conosco molti ristoratori con cui iniziare il progetto.
Avendo tu fatto business in entrambi i paesi, qual è una differenza che hai notato tra il Giappone e l’Italia?
In Giappone c’è una tendenza a lavorare molto in gruppo e a perseguire un obiettivo stabilito dal capo, mentre in Italia c’è un altro tipo di mentalità. La cosa interessante è che se capita che sparisco dal ristorante per un mese senza lasciare indicazioni, in Italia i miei ragazzi mandano avanti il ristorante e si inventano cose nuove. In Giappone invece è più sentito il bisogno che il capo sia presente e sia lui ad impostare il lavoro. Un’altra differenza sono i tempi di risposta al cambiamento. In Giappone, per esempio, la Toyota ha comprato una città per sviluppare la prima città completamente basata sulla tecnologia e l’intelligenza artificiale. Gli italiani in questo senso si impegnano a valorizzare molto le cose a cui tengono, e quindi hanno bisogno di più tempo per distaccarsene e innovare.
Ora che non giochi più a calcio a livello professionale, ci giochi ancora nel tuo tempo libero?
In realtà il tempo libero che dedicavo al calcio ora lo dedico a mio figlio. Lui è il maggiore di tre e anche a lui piace giocarci. Infatti tutte le mattine mi sveglia lui alle sei e mezza e in un’ora ci troviamo sempre sul balcone a calciare la palla.
Mi sorge spontanea la domanda: cosa ti piace dell’Italia? Perché ne sembri davvero innamorato.
Ci ho vissuto la mia gioventù e, come dicevo prima, anche un momento tragico inizialmente. Infatti mi sono ritrovato a non sapere cosa mangiare o dove dormire, ma a non voler chiedere aiuto ai miei genitori visto tutto ciò che avevano investito perché io mi trasferissi. Poi però sono riuscito a superare le avversità grazie alle persone che mi hanno dato una mano e che da allora mi hanno sempre sostenuto. Questo mi ha fatto sentire a casa e infatti abbiamo mantenuti i rapporti nel tempo: vado sempre in Abruzzo a trovarli. E da allora ho avuto modo di vivere il paese anche grazie a mia moglie, che è siciliana, andando a trovare la famiglia. Mi piace tanto il fatto che la gente qui si abbracci, che sia affettuosa, un aspetto relazionale che in Giappone non c’è.
È arrivato il momento di porre delle domande che vorrei poterti non fare. In che situazioni vi siete trovati con l’arrivo del Coronavirus e il conseguente obbligo di chiusura dei locali al pubblico?
“Beh, chiaramente ci siamo trovati in una situazione molto difficile, soprattutto perché i costi fissi dei quattro locali andranno comunque pagati. A Torino tantissimi ristoranti avevano chiuso i battenti e noi abbiamo dovuto fare lo stesso, costretti dalla poca richiesta di delivery. A Roma, invece, abbiamo mantenuto due ristoranti aperti, anche se ne stiamo usando uno solo per preparare tutto il cibo per il delivery. Stiamo lavorando in due al momento e quindi anche io sto dando una mano in cucina, seguendo la ricetta del ramen alla perfezione, in modo che non si noti la mia inesperienza nel cucinare. Abbiamo riorganizzato molte cose e fatto tanti passi avanti dal primo momento di smarrimento dopo aver ricevuto dallo stato il forte messaggio di chiudere. È molto importante per me, oltre agli aiuti che lo stato darà a me e ai nostri dipendenti, portare avanti l’azienda al meglio in modo da preservare il loro posto di lavoro. Per questo mi sono appoggiato al progetto di #romarestaacasa, che mi ha permesso di mettermi in contatto con produttori, altri ristoratori e clienti.
Quindi come state gestendo il delivery?
Ho deciso di fare io le consegne, piuttosto che il mio collega, quindi lavoriamo dal giovedì alla domenica e organizziamo le prenotazioni in modo da poter coprire un paio di quartieri per volta. Ci tenevo a farlo perché sentivo il bisogno di vedere la faccia delle persone che hanno ordinato, chiaramente mantenendo tutte le precauzioni. La cosa più bella ed emozionante che ho visto è che alla maggior parte delle persone non interessa tanto l’ordine quanto il gesto. Ed è stato anche per questo che ho chiamato tanti miei amici giapponesi per chiedere loro di mandare degli incoraggiamenti agli Italiani e ho fatto un video. Volevo regalarvi un sorriso per ringraziarvi per tutto ciò che avete fatto per me. E perché ora più che mai è importante essere uniti.
Ho visto il video in cui racconti che stai andato a portare del cibo all’Ospedale Spallanzani. Volevo chiederti cosa ti ha spinto a prendere questa decisione e come si è conclusa?
Ho cercato di far andare avanti il ristorante dedicandomi al servizio di delivery e alla promozione delle gift card, ma sentivo che la mia utilità era limitata vista la situazione. Quindi ho deciso di fare qualcos altro, di sfruttare i prodotti che avevo già comprato per evitare di buttarli e contemporaneamente regalarli per fare un gesto che manifestasse il mio sostegno a chi lavora in ospedale, che in questo momento è in estrema difficoltà. Per quanto riguarda la “spedizione”, sono effettivamente riuscito a portare il cibo ma, a differenza dell’andata, non l’ho documentato siccome non mi sembrava il caso. I dottori mi hanno ringraziato ma chiaramente non c’era la possibilità di rimanere per chiacchierare, quindi me ne sono andato appena dopo che ho lasciato loro il cibo.
Cosa pensi di aver imparato da questa situazione?
Ora che siamo costretti a fermarci e a mettere un po’ da parte il lavoro, abbiamo modo di pensare a quelle che sono le nostre priorità e capiamo il vero valore della vita. È il momento di darsi una mano e di regalare sorrisi alle persone.
Se c’è una sola cosa che io e Akira vogliamo che vi resti di questa conversazione è l’importanza di compiere gesti di solidarietà in questo momento difficile. Speriamo di sentire tante altre storie di “spedizioni” per consegnare del cibo a chi negli ospedali – tra medici, infermieri e volontari – sta dando la priorità assoluta ad aiutarci, anche alla loro stessa salute.
Se siete curiosi di sapere di più, trovate qui anche un’intervista live con Akira e Marco Sabatini:
Contatti “Ramen Bar Akira”:
Tel: 327 412 2211
Indirizzo: Via Ostiense 73, Roma
Contatti “Leo’s Gyoza Factory”:
Tel: 393 723 1735
Indirizzo: Via Matteucci 15, Roma
Contatti “Dorayaki”:
Tel: 068 666 0523
Indirizzo: Via Del Porto Fluviale 3E, Roma
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